Un ricordo dello scrittore a 95 anni dalla nascita e un parallelo tra il suo 'Barone rampante' ed il 'Bartleby' di Melville
A Santiago de Las Vegas (l'Avana, Cuba), pur essendo italianissimo, nasceva 95 anni fa Italo Calvino. Vale la pena di ricordarlo: credo gli sia dovuto per mille motivi: per aver saputo descrivere con esasperata precisione la realtà (Palomar: «Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto»), per aver proposto delle chiavi di lettura del quotidiano («Marcovaldo», «La speculazione edilizia», ad esempio), per aver offerto a chi lo legge una speranza di resistere, e di vincere: un sogno: «Anziché lasciarsi assorbire dall’inferno e accettare pedissequamente di farne parte, con melanconica e definitiva anestesia, resta per noi un’ultima risorsa che esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Dare spazio a ciò che non è inferno.
È la più concreta risposta alle parole di uno dei grandissimi scrittori del ‘900, William Faulkner, che nel 1950, ricevendo il premio Nobel a Stoccolma, disse: «Credo che l’uomo non si limiti a resistere: credo che vincerà. È immortale, perché ha un’anima, uno spirito capace di compassione e sacrificio e sopportazione. Il dovere del poeta, dello scrittore è di scrivere su queste cose. La voce del narratore non ha da essere soltanto la memoria dell’uomo, può essere uno dei sostegni, dei pilastri che lo aiutano a resistere, a sopportare. E a vincere».
Le grandi storie raccontano anche la nostra storia e ci insegnano qualche cosa: Umberto Eco dice che, soprattutto, ci insegnano ad accettare il fato, a saper morire. È già moltissimo.
Calvino ci ha insegnato anche ad essere noi stessi, non essere vuoti, non confonderci nel nulla, sognare, lottare e saper sperare. Cosimo di Rondò, il dodicenne barone rampante, è per stessa ammissione dell’autore nella «Nota del 1960», esattamente tale modello, una persona che si pone volontariamente una difficile regola e la segue fino alle ultime conseguenze, perché senza di questa non sarebbe se stesso né per sé né per gli altri. «Un uomo che rifiuta di camminare per terra come gli altri, ma comunque dedito al bene del prossimo, inserito nel movimento dei suoi tempi, che vuole partecipare a ogni aspetto della vita attiva: dall’avanzamento delle tecniche all’amministrazione locale, alla vita galante. Sempre però sapendo che per essere con gli altri veramente, la sola via era di essere separato dagli altri, d’imporre testardamente quella sua singolarità e solitudine in tutte le ore e in tutti i momenti della sua vita, così come è vocazione del poeta, dell’esploratore, del rivoluzionario».
Molti critici ritengono che l’antesignano di Cosimo fosse il «Cyrano de Bergerac» di Rostand. A me piace vederlo in collegamento anche con un altro grande personaggio della letteratura: «Bartleby lo scrivano», di Melville. Che Calvino - pur dimostrando di conoscere perfettamente per testardaggine, cocciuta eccentricità e, soprattutto, senso di libertà inteso come capacità di scelta - fa di tutto per superare in un aspetto: la fiducia nel domani. «Preferirei di no» diceva Bartleby, quando gli veniva chiesto di fare un lavoro che lui riteneva non dover fare. «Era uomo di scelte, più che di supposizioni», rifletteva il magistrato dell’Alta corte di equità, suo datore di lavoro nonché io-narrante. E questa sua scelta insindacabile porterà Bartleby a lasciarsi morire.
«Ho detto che non voglio e non voglio», disse con la medesima risolutezza Cosimo di fronte a quel piatto di lumache che immagino viscido e inguardabile, tanto che anch’io mai ho voluto assaggiarle.
«Mai s’era vista disubbidienza più grave», racconta il fratello-narratore (anche la struttura del racconto, se vogliamo, è simile con un io-narrante che non è il vero protagonista della storia, ma un testimone dal carattere antitetico). Quella fu l’ultima volta che Cosimo sedette in famiglia. Poi via, sugli alberi. Per sempre. Sparito alla fine su quella mongolfiera «che non diede alla sua famiglia la soddisfazione di vederlo tornare sulla terra da morto».
Però... Già, c’è un però. Bartleby si abbandona alla morte per coerenza, ma lasciando a chi rimane la terribile eredità di quella morte, il senso di colpa per non averlo saputo capire, per non averne compreso la sua storia, le sue esperienze, il suo precedente lavoro come impiegato subalterno nell’ufficio delle lettere smarrite da dove era stato licenziato per un cambiamento dell’amministrazione. «O Bartleby! O umanità!», chiude il racconto Melville-magistrato. Determinando con impareggiabile esattezza, attraverso il baffo di due punti esclamativi, l’inevitabilità dell’incomprensione cui va incontro chi vuole essere libero. Chi decide di scegliere.
Cosimo, no: non torna. Magari neanche muore, chissà. «Visse sugli alberi, amò sempre la terra, salì in cielo».
Non c’è una fine vera: i sogni rimangono aperti, liberi di prendere quota senza limiti, nel nulla (qui torna il Cyrano, esploratore della luna nell’indimenticabile dialogo con De Guiche); ogni tanto il fratello-Calvino va alla finestra e guarda fuori: «Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla...». Da qui, da Calvino, dai suoi personaggi eccezionali (Marcovaldo, Palomar l’osservatore, il Marco Polo ma soprattutto Cosimo) inizia una nuova era; un passo ulteriore dalla letteratura come rifugio dalle offese della vita (Pavese), alla scrittura e la lettura come momento di resistenza, educazione al fato e alla morte, alla possibilità data all’uomo di volare, grazie alla consapevolezza della divisione che esiste tra il mondo esterno e quello interno al nostro io. Calvino in molti suoi scritti ha tolto la crosta della certezza di sconfitta che impone la libertà scelta da Bartleby.
Ha usato il sogno, il favoloso come grimaldello per la speranza di vincere.
Il finale aperto del Barone rampante è questo. Alberto Asor Rosa qualche anno fa in una conferenza a Rovereto lo ha detto chiaro: con Calvino finisce la letteratura (italiana e occidentale) del Novecento. Da lui in poi è Duemila.
(L'Adige, 20 settembre 2000)
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