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Immagine del redattoreMaurilio Barozzi

«Parigi è solo un palcoscenico» (5/8/2024 - l'Adige)

Aggiornamento: 14 ago


Parigi non sarebbe Parigi senza la letteratura. Non esiste un luogo della capitale francese che non sia stato cantato in qualche romanzo o in qualche poesia. E tali pagine hanno elevato monumenti, chiassi, costruzioni, incroci all’idealizzazione dell’essenza.

Parigi trascende se stessa: tutto ci riconduce a riflessioni, osservazioni, descrizioni che da una parte impreziosiscono ogni luogo della città, arricchendolo con molteplici strati di immaginazione, d’altra parte però rendono quasi impossibile soffermarsi alla pura osservazione di tali luoghi, abituati come siamo ad averli già conosciuti. Non solo i luoghi: anche le sensazioni, le usanze, le situazioni hanno, a Parigi, un paradigma. L’esempio più lampante di tutto ciò sono probabilmente “I «passages» di Parigi“ in cui Walter Benjamin per tredici anni annotò tutto ciò che vedeva e pensava riguardo alla capitale francese. Una città di specchi, l’ha definita. «Perfino gli occhi dei passanti sono specchi velati. E sull’ampio letto della Senna, su Parigi, il cielo si apre come uno specchio di cristallo sopra i bassi letti delle case di tolleranza». «La vanità, l’allegria, la lussuria passano sotto le luci del boulevard Sebastopol. (...) Parigi pare un cane trafelato che continui a inseguire la sua cagna» aggiunge Charles-Louis Phlippe in “Bubu di Montparnasse”, aprendo un filone che ha orientato anche l’immaginario collettivo alla Parigi più libertina, dove i vari  Henry Miller, Jean Genet, Louis-Ferdinand Céline si muovono a proprio agio e dove, non per caso, Ernest Hemingway vi ambienta il celeberrimo abbordaggio dell’intraprendente Georgette a Jake, all’inizio di “Fiesta”.

A proposito di Hemingway. In “Fiesta Mobile”, peraltro quasi tutto ambientato a Parigi, a un certo punto lo scrittore cerca di rassicurare l’amico Francis Scott Fitzgerald sulle sue misure anatomiche messe in discussione dalla perfida moglie Zelda. «Tu sei perfettamente a posto» gli dice Hemingway. «Sei normalissimo Non hai alcun difetto. Ti guardi dall’alto e ti vedi di scorcio. Va’ al Louvre a vedere i corpi delle statue e poi corri a casa e guardati allo specchio di profilo». «Può darsi che quelle statue non siano proporzionate», dubita ancora Fitzgerald. E Hemingway: «Sono perfette. Quasi tutti ci farebbero la firma». Da allora, ogni volta che al Louvre entro nella sala delle statue non posso fare a meno di pensare a quella scena.

Del resto, chi – affacciandosi sulla piazza di Notre Dame – non immagina che lassù, in cima, possa esserci il Quasimodo di Victor Hugo «tutto preso a pungolare le sue campane, che saltellavano tutte e sei a gara, e scuotevano le loro groppe lucenti come una rumorosa pariglia di mule spagnole rintuzzate qua e là dalle apostrofi del mulattiere». Oppure, assistendo a uno spettacolo all’Opéra, chi non ha temuto che crollasse il lampadario, come accadde ne “Il fantasma dell’Opéra” di Gaston Leroux: «Con un moto simultaneo, alcuni spettatori alzarono la testa al soffitto e lanciarono un urlo atroce. Il lampadario, l’enorme massa del lampadario crollava, veniva verso di loro, al richiamo di quella voce satanica».

Se Parigi val ben una messa, Emile Zola nel suo “Parigi” ha raccontato la basilica del Sacre-Coeur come una messa di troppo per Parigi. Il suo personaggio Guglielmo osserva la costruzione come «una fioritura mostruosa, di una alterezza provocante e di una maestà suprema». «Non conosco nulla di più sciocco che Parigi incoronata, dominata da quel tempio idolatra, costruito per glorificare l’assurdo. Una simile impudenza, uno schiaffo dato alla ragione, dopo tanto lavoro, tanti secoli di scienza e di lotta! (...) A Lourdes, a Roma la cosa si spiega. Ma a Parigi, in questo campo dell’intelligenza, così profondamente arato, dove germoglia l’avvenire! È la guerra dichiarata, è la conquista attesa, sostenuta con insolenza».

Parigi è anche la patria del flâneur, il viaggiatore senza meta. «Bahorel, tipo capriccioso, passava da un caffè all’altro: gli amici erano abitudinari, lui no, amava vagabondare. Errare è umano, flâner è parigino», gioca sul noto passo di Sant’Agostino Victor Hugo ne “I Miserabili”. Il fatto è che il flâneur non solo vagabonda, ma nel suo passaggio osserva. Lo stesso fa la poesia di Chearles Baudelaire che, spesso o sempre, racconta la città. «L’aurora in veste rosa e verde, fredda e incerta,/ lenta avanzava sopra una Senna deserta,/ e, vecchio laborioso, Parigi soffregava/ gli occhi assonnati, e i soliti suoi attrezzi impugnava». Nel “Crepuscolo mattutino” si risveglia anche un’altra pietra miliare parigina: la metrò. Che, all’alba della domenica, si fa dimora dei senzatetto. Lo ricorda Raymond Queneau nel suo “Zazie nel metrò” quando, all’imbocco della Gare d’Austerlitz, zio Gabriel deve tapparsi il naso con un fazzoletto per non essere ammorbato dal «Barbouze», essenza di barbone. Anche loro cantati come parte della commedia quotidiana di cui Parigi è lo sfondo. Come scrive Henry Miller in “Tropico del Cancro”: «Parigi è solo un palco artificiale, un palcoscenico rotante».


Maurilio Barozzi - L'Adige, 5 agosto 2024






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