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Immagine del redattoreMaurilio Barozzi

Sul Gange, il fiume venerabile di Varanasi (2/9/2024 - l'Adige)


Varanasi – o Benares – non è l’India, tuttavia non puoi farti un’idea dell’India senza esserti fermato a Varanasi. Addirittura, Jorge Luis Borges l’ha cantata senza averla veduta: «Il brusco sole,/ lacera la completa oscurità/ di templi, letami, carceri, patios/ e scalerà i muri/ e splenderà in un fiume sacro». Dominique Lapierre, nel suo “India mon amour” parla della «santissima città di Benares, dove tanti indiani vengono a morire per sottrarsi alla fatalità di una reincarnazione sulla terra. Ai piedi della città santuario scorre infatti il Gange, grande canale funebre che ha il potere di concedere ai suoi adoratori l’ingresso definitivo nell’eternità».

Avvicinarsi al fiume nel buio che precede l’aurora significa percorrere vicoli putridi, fangosi e puzzolenti dove mendicanti dormono infagottati in stracci su rialzi in pietra, ignari o dimentichi dei ratti che sgusciano affamati. Discesa infine una scalinata a imbocco sull’acqua - i famosi ghat - ecco il Gange, tanto largo che la sponda opposta pare perdersi nel buio della notte o nella foschia del giorno.

Solcare quelle acque, non senza aver offerto una fiammella galleggiante su una foglia di banano, getta chiarori su squarci di vita attuali e remoti. E così, navigandolo su barchette di legno marcio (sebbene marchiate da magniloquenti loghi come UgoBank o AirTel), dal Gange si vede la città che pulsa la sua vita al contempo primordiale e mistica, trascendente e pratica. Uomini che lavano le loro tuniche arancioni, ragazzine in meravigliosi sari variopinti che vendono fiori e candele, vacche che pascolano sulla pietra nuda dei ghat, coppie che si giurano amore eterno immergendosi nell’acqua e, soprattutto, le pire che cremano i morti. «Si susseguono cataste di legna dove ardono decine, centinaia di cadaveri. (…) I becchini rastrellano in continuazione le ceneri ancora ardenti e le spingono nel fiume. La polvere grigia resta per qualche attimo in superficie, poi s’imbeve d’acqua, affonda e sparisce», scrive Ryszard Kapuscinski in “In viaggio con Erodoto”. Personalmente, fui colpito dal fatto che a fianco delle cataste di legna, proprio sopra le pire, c’era un negozio di pane e dolciumi.

A Varanasi giunsi in treno da Gwailor, in un vagone-letto dove il controllo dei biglietti era stato subappaltato a dei giovanotti senza divisa, sgherri poco raccomandabili che pretendevano il pagamento di 200 rupie supplementari per consegnare le lenzuola mentre il capotreno riposava noncurante. Proprio come racconta lo scrittore indo-statunitense Suketu Mehta, «nel mondo degli affari, il sistema delle estorsioni è tanto radicato che l’alta corte ha deciso che le somme versate al racket sono deducibili dalle imposte come legittime spese di produzione».

L’immagine di Varanasi irraggiata da questi furbacchioni – il capotreno e i suoi complici – era ben diversa da quella che mi ero fatto leggendo i racconti di Tiziano Terzani: «Sulle rive del Gange centinaia di migliaia di normalissimi giovani si immergono nelle acque putride e sacre, migliaia e migliaia di sadhu, che hanno rinunciato a qualsiasi possedimento materiale, si aggirano per il Paese vivendo di elemosina, rispettati come esempio di quel che ognuno dovrebbe fare e non riesce». Forse, semmai, il capotreno e i suoi scagnozzi evocavano gli uomini-bambini dell’India di “Siddhartha”, di cui Hermann Hesse osserva «le loro vanità e le loro cupidigie». Oppure le tesi di Pier Paolo Pasolini che nel suo “L’odore dell’India” rovescia il cliché sulla religiosità del paese: «A me non risulta che gli indiani siano molto occupati da seri problemi religiosi. Certe loro forme di religiosità sono coatte, tipicamente medioevali: alienazioni dovute all’orrenda situazione economica e igienica del paese, vere e proprie nevrosi mistiche, che ricordano quelle europee, appunto, del medioevo che possono colpire individui o intere comunità. (…) Si giunge addirittura a una specie di paradosso: gli indiani, astratti e filosofici, alle origini, sono attualmente un popolo pratico».

In effetti, lontano dalle sponde del Gange, Varanasi è una metropoli indaffarata e zuppa di odori, intasata di traffico, clacson impazziti e serici sari dai colori sgargianti. «Il portentoso traffico asiatico non mi è estraneo – racconta Jeff, il protagonista di Geoff Dyer in “Amore a Venezia. Morte a Varanasi” –. Sono un veterano degli ingorghi cronici di Manila, del jihad di Java, dell’isterismo corazzato di Saigon, ma quella era tutta un’altra cosa. Macchine, risciò, tuktuk, macchine, biciclette, carretti, risciò, motociclette, camion, persone, capre, mucche, bufali e autobus formavano un gregge unico». E lì in mezzo si respira quella che Giorgio Manganelli descrisse come «l’aria dell’India, un’aria sporca e vitale, purulenta e dolciastra, putrefatta e infantile». Un’aria pregna di dinamismo e commercio: verdura, frutta, agenzie di cambio, banche, massaggi, ristoranti e, soprattutto, vestiti e stoffe. Avvicinandosi al quartiere delle fabbriche della seta, il frastuono dei clacson e del traffico è rimpiazzato dal martellare dei telai e qualsiasi antro ospita persone al lavoro, ognuna occupata da un livello della lunga filiera produttiva. Al vertice ci sono i mercanti, belli, puliti, eleganti, profumati e scaltri. Che di solito riescono a farti comperare ciò che vendono. Proprio come Kamaswami in “Siddhartha”.


Maurilio Barozzi - L'Adige, 2 settembre 2024






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